MENTRE ACCESI DIBATTITI DIVIDONO L’EUROPA
E I CONSUMATORI SONO LASCIATI IN BALIA DEGLI EVENTI,
LA STARTUP ITALIANA AQUA FARM HA TROVATO IL MODO
PER CONCILIARE ECONOMIA, AMBIENTE E SALUTE
A maggio 2020, nell’ambito del più ampio programma del Green Deal, la Commissione europea ha presentato la propria visione per raggiungere importanti obiettivi nel settore agricolo, al fine di rendere più sostenibile la produzione, il consumo, la trasformazione e la distribuzione alimentare, riducendone al contempo lo spreco.
Il Farm to Fork and Biodiversity, infatti, si concentra sulla gestione dell’ambiente, sulla sicurezza alimentare e sulle implicazioni per la salute umana, confermando gli ambiziosi obiettivi politici europei per il 2030, tra cui la riduzione delle emissioni di gas serra del 55%.
Questo programma, con cui l’Unione europea tenta di conciliare agricoltura, ambiente e salute, si sta rivelando, però, una fonte di accesi dibattiti tra Stati membri, Commissari e produttori.
Gran parte delle aziende e delle lobbies agricole non sembrano disposte a rinunciare a privilegi e sussidi, che in questi anni hanno favorito le produzioni su grandi superfici, l’uso massiccio di pesticidi e fertilizzanti, nonché l’allevamento intensivo.
La guerra in Ucraina, la crisi dei mercati agroalimentari e l’inflazione hanno fornito nuovi argomenti agli “oppositori”, i quali dichiarano di temere per la sicurezza alimentare.
Tra i tanti punti di discordia tra le fazioni più o meno favorevoli al Farm to Fork, il dimezzamento dell’uso dei pesticidi entro il 2030 appare particolarmente sentito. Vale la pena ricordare che attualmente ci sono grandi differenze da Paese a Paese: alcune nazioni, come l’Italia e l’Olanda, applicano 6-10 kg di sostanze per ettaro, mentre altri, tra cui Romania, Finlandia e Svezia, meno di 1 kg (dati FAO 2020); di conseguenza, la nuova regolamentazione dovrebbe tenere conto dei criteri di partenza, al fine di garantire una normativa realmente equa.
Lo scontro è stato esacerbato anche da vari dossier, che hanno analizzato in modo più o meno oggettivo le conseguenze legate all’applicazione delle strategie del Farm to Fork.
I LIMITI DEL FARM TO FORK SMASCHERATI DAGLI STATI UNITI, ANCHE SE…
Uno studio dell’USDA (Dipartimento statunitense dell’agricoltura) ha riscontrato una serie di implicazioni negative legate all’adozione del piano decennale europeo, attraverso il quale con drastiche riduzioni dell’uso di terra, antimicrobici, fertilizzanti e pesticidi, l’Unione Europea vuole diminuire l’impatto ambientale, contrastare il cambiamento climatico, aumentare la biodiversità e garantire sicurezza e cibo sostenibile per tutti.
Per assicurare nuova fertilità ai suoli e tutelare gli ecosistemi, gli obiettivi principali sono:
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la riduzione del 20% della domanda di carne;
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l’azzeramento delle importazioni di soia;
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l’aumento del 25% dell’agricoltura biologica;
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la riduzione dell’uso di agrofarmaci (-50%);
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la riduzione dei concimi chimici (-20%).
L’USDA ha voluto esaminarne le implicazioni economiche, partendo dal presupposto che uno degli obiettivi del Farm to Fork fosse l’espansione del programma a livello internazionale.
Sono stati analizzati, quindi, diversi scenari, che spaziano dall’adozione del progetto da parte della solo Unione Europea all’adesione globale.
Lo studio ha riscontrato una riduzione della produzione agricola del 7-12%, associata alla diminuzione della competitività sia nei mercati interni che in quelli di esportazione. Parrebbe, inoltre, che la diffusione di queste strategie avrebbe impatti che si estenderebbero oltre i confini europei, facendo aumentare i prezzi alimentari mondiali dal 9% (adozione del programma solo da UE) all’89% (adozione globale); tutto ciò, naturalmente, avrebbe ripercussioni negative sui bilanci dei consumatori e sull’economia mondiale, con perdite stimate tra 96 miliardi e 1,1 trilioni di dollari, in base alla portata della partecipazione al programma. L’incremento dei prezzi farebbe inevitabilmente aumentare il numero di persone in condizioni di insicurezza alimentare nelle aree più povere del mondo, che diventerebbero circa 22 milioni (sola adozione UE), se non addirittura 185 milioni (adozione globale).
Tuttavia, come espresso chiaramente nel documento stesso, le analisi non forniscono alcuna informazione sui potenziali costi/benefici per l’ambiente e la salute umana, che naturalmente si riflettono anche sull’economia.
Ma non sono neppure state affrontate le inevitabili implicazioni economiche, politiche e sociali legate ai problemi che il Farm to Fork mira a contrastare e che, in caso di non-azione, avrebbero un impatto altrettanto significativo su scala globale.
In definitiva, lo studio dell’USDA è uno strumento nato unicamente per valutare gli obiettivi politici del Farm to Fork e, in mancanza di un’analisi altrettanto precisa sulle conseguenze derivanti dal mantenimento delle attuali pratiche agricole, risulta anche piuttosto parziale.
IL VERO NEMICO DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA
Sono giunte a conclusioni simili, tuttavia, anche le ricerche commissionate dal Grain Club (associazione tedesca operante nel comparto agroalimentare) e dalla Commissione europea stessa, per mezzo del centro di ricerche europeo JRC.
Le indagini condotte dal direttore dell’Istituto di Economia agraria dell’Università di Kiel per conto del Grain Club mostrano alcune conseguenze pratiche legate all’adozione delle strategie del Farm to Fork, che porterebbero a una riduzione del 20% per la produzione di carne bovina e del 6,3% di latte; a questo seguirebbe un aumento dei prezzi del 58% per la carne bovina, del 48% per quella suina e del 36% per il latte. Stessa sorte spetterebbe al comparto ortofrutticolo (prezzi più alti del 15%) e a quello cerealicolo (+12%). Naturalmente crescerebbero le importazioni di tali prodotti, che andrebbero ad annullare gli eventuali benefici ambientali dell’intera operazione.
Queste analisi, seppur svolte con approccio scientifico, non tengono conto di un altro obiettivo fondamentale del Farm to Fork: la promozione di un’alimentazione più sana e consapevole. Oltre ai palesi benefici per l’ambiente e la salute, il raggiungimento di questo traguardo andrebbe a ridimensionare notevolmente gli effetti negativi ipotizzati, grazie alla contrazione della domanda (e, quindi, dell’eventuale importazione) dei prodotti ad alta impronta ecologica.
Senza demonizzare i prodotti di origine animali, tra i quali si annoverano moltissime delle eccellenze gastronomiche italiane ed europee, è innegabile la necessità di ridurne produzione e consumo, puntando sulla qualità, invece che sulla quantità.
Qualsiasi iniziativa finalizzata a rendere più sostenibile il comparto agrifood sarà sempre inefficace, se non si riesce contemporaneamente a:
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modificare le abitudini alimentari dei consumatori;
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scongiurare l’importazione di prodotti di qualità inferiore, attraverso politiche commerciali ad hoc.